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Ho riletto
la posta cento volte. Non ce n’era bisogno ma l’ho fatto comunque.
E’ un furto.
Non è la mia, non ne ricevo.
Questo luogo è fuori posto, fuori dal tempo. Non
vediamo altre persone. Non ci sopportiamo tra noi. Non siamo mai soli, così
sorvegliati. Eppure lo siamo.
Assomiglia a
una scelta consapevole, questa della solitudine prolungata. La realtà intorno
sfuma, si confonde con ricordi non miei attraverso le confidenze scritte a
penna da una sconosciuta a un altro detenuto che loro malgrado ora conosco
meglio di se stesso.
Eppure è
ancora il letto il mio confidente e il mio compagno di cella. L’oggetto del mio
riposo avvolge la preda con le sue corde invisibili fatte di spossatezza e
rassegnato torpore.
L’immediatezza
che provavo nell’agire di notte in fuga dagli inseguitori, dai cani e dalle
guardie non è che un lontano ricordo, il suo posto nel mio cervello occupato da
elucubrazioni sempre più sguscianti. Perché nessuno mi scrive?
Ho davanti
venti anni di vita da recluso e non un volto con il quale colloquiare quando
uscirò.
Il mio vicino di cella prega tutte le notti ma
non capisco le parole. E’ un mormorio che non approda a nulla, all’apparenza
senza capo né coda. Prova angoscia, si dispera, ha la nausea, cede al dolore e
aspetta una risposta. La sua e la mia singolarità non entrano mai in contatto,
non condivide con me le sue sofferenze e ne ha ben donde.
Forse ci si
potrebbe compatire a vicenda nell’attesa di una luce che ci guidi in questo
labirinto buio fatto di attese.
Gli altri ne parlano: c’è un tunnel nero che
serpeggia tra i corridoi attraverso le porte blindate, gli allarmi e le
telecamere, un corridoio di possibilità intersecate coi decimi di secondo, i
ronzii dei servomotori e le tensioni basse della luce blu.
C’è un modo per
scappare.
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