martedì 15 ottobre 2019

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Ho riletto la posta cento volte. Non ce n’era bisogno ma l’ho fatto comunque. 
E’ un furto. Non è la mia, non ne ricevo.
 Questo luogo è fuori posto, fuori dal tempo. Non vediamo altre persone. Non ci sopportiamo tra noi. Non siamo mai soli, così sorvegliati. Eppure lo siamo.
 Assomiglia a una scelta consapevole, questa della solitudine prolungata. La realtà intorno sfuma, si confonde con ricordi non miei attraverso le confidenze scritte a penna da una sconosciuta a un altro detenuto che loro malgrado ora conosco meglio di se stesso.
 Eppure è ancora il letto il mio confidente e il mio compagno di cella. L’oggetto del mio riposo avvolge la preda con le sue corde invisibili fatte di spossatezza e rassegnato torpore.
 L’immediatezza che provavo nell’agire di notte in fuga dagli inseguitori, dai cani e dalle guardie non è che un lontano ricordo, il suo posto nel mio cervello occupato da elucubrazioni sempre più sguscianti. Perché nessuno mi scrive?
 Ho davanti venti anni di vita da recluso e non un volto con il quale colloquiare quando uscirò.
 Il mio vicino di cella prega tutte le notti ma non capisco le parole. E’ un mormorio che non approda a nulla, all’apparenza senza capo né coda. Prova angoscia, si dispera, ha la nausea, cede al dolore e aspetta una risposta. La sua e la mia singolarità non entrano mai in contatto, non condivide con me le sue sofferenze e ne ha ben donde.
 Forse ci si potrebbe compatire a vicenda nell’attesa di una luce che ci guidi in questo labirinto buio fatto di attese. 
Gli altri ne parlano: c’è un tunnel nero che serpeggia tra i corridoi attraverso le porte blindate, gli allarmi e le telecamere, un corridoio di possibilità intersecate coi decimi di secondo, i ronzii dei servomotori e le tensioni basse della luce blu. 

C’è un modo per scappare.

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