L’ETERNA LOTTA
per concession del Conte
Or
canterrovvi, leti ‘scoltatori,
del
gran duello di cui fa memoria
da
lungo tempo già la stirpe antica
de’
prodi cacciatori Tusculani
c’han
sua dimora in centro a la regione
da
tutti nominata Gran Ducato
ov’è ‘l
Signor di tutto ciò che vive
Re
Stefano Patròn et Paludato.
Io
canterò de l’epica battaglia
Da cui
pessarono mille e mille anni,
che la
rammentan solo i vecchi saggi,
Tra
Bòlkador possente, gigante de
Tempesta,
signore de’ gran venti
E scuotitor
de li scoscesi monti
E Garadòn,
demòne venenoso,
feccia
eruttata da lo basso ‘nferno.
L’uno
grandioso, l’alio infido e cupo,
aveano
ambedue ‘sì gran potere
che de’
mortali non tenevan conto
né se
curavan de le lor faciende
bensì
ne l’altrui forza perduti
erano,
avuto il dominio crescente
del
lampo svelto e l’inimico buio,
per
cui parea ca fusse ‘l gran Diluvio.
Bòlkador
potea decìder quanti piedi
Avesse
da tener per sua statura
E mille
figli l’agiutavan sempre
Ch’avuti
avea per cinque e dieci mogli;
a suo
comando i tuoni e le saette
colpivano
quadunque l’opponesse
se c’era
in la regione folle alquanto
da
farsi contra sé nimico tanto.
Ma
Goraòn, crudel losco figuro,
tenea
lo gran potèr del Strale nero,
arma
maligna et piena del gran dolo
strappato
agli avversari suoi passati,
‘chè
mai niuno guerrer ha resistito
Ma tutti
son finiti tra i dannati:
l’anima
dolce tolta dal bestiale
servo
d'Arìman bevitor di male.
I duo
colossi ergeansi di fronte,
sul
Piano ch’è tra’l nostro e quel
de’
Vecchi Dèi. Lì guàtan divertiti
la
lotta folle e priva di ragione;
il
biondo Bòlkador cavalca prone
per
non venir sbalzato da l’arcione.
Il
Grande Drago Ghor avea montato
pe’ aver
di parte sua lo cieco fato.
La
corsa del pregevole dragone
Fermata
fu da centomila fiere;
eran
nient’altro de le sue paure,
più
quelle del padron, pur meno dure,
forti
come l’acciar temprato a foco
da
Mastro Fabro seco Benvenuto,
e
bruto pare invero l demon nero
che graccia
su nel ciel col muso fiero.
E tale
è la violenza de le grida,
che
fora l’elmo, e pure l’armatura
ma
tosto il suo destriero, aspre le fauci,
vomita
vampo e flamme contra’l mostro
ch’è
già percosso con i pugni duri
dei
figli del Titàn; miseri e mesti,
avvelenati
a morte si son persi
e 'l spirto è su salito ai cieli tersi.
Gli
artigli del dimonio, ferro
Tempro
del sangue di vittime fiere,
squarcian il ventre dell’immane drago:
restano
soli i veri antagonisti
avvinti
nella stretta micidiale
la
quale fa tremar lo stesso cielo
e
gronda molto sangue, nero e rosso.
Così
di più non so contar né posso.
Spero
d'avere voi qui dilettato
Col mio
versière bieco rozzo scarno
Giacchè
giungo dal volgo e da la piazza
E faccio
questo solo per mangiare.
Ma
grazia voi chiedete al Signor nostro,
Conte
Fiorente, amico di noi bassi,
che c’ha
donato festa e vino rosso
e più
davver non so cantar né posso.
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