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Aphàsia
Semidee
seminude custodi dell’amore.
La nostalgia
dell’abbraccio dell’innocente da parte dell’altra metà del mondo.
Fa freddo.
Interi volumi si sono riempiti di simili pensieri, ma è sempre la solita solfa:
il tempo si ripete, la ruota che gira è la tortura.
La cara fanciulla sospira in cerca di un po’
di calore, in assenza del quale persino il respiro diventa pesante. L’istinto
di conservazione non sempre ha il sopravvento. Poteva dirsi angelico quel
volto?
Una bellezza
prosaica, esemplare dell’intera specie.
Occhi chiari
come ghiaccio per brividi da pelle d’oca, gli abiti soltanto un ricordo.
Come
resistere al gelo della cella? Ah, sì. Il ricordo. Eccolo, dunque:
“Aphàsla
fu la favorita del Sultano. L’harem contava in quei giorni ventuno tra
splendide donne e docili fanciulle, tenute languide al riparo della grande
tenda rosa; i morbidi capelli adagiati sui cuscini di piume rare, soffici
guanciali senza suono. Soltanto pareti di filigrane dorate a separarle.
Egli per molte notti non si curò di
Aphàsia, né giacque con alcuna delle mogli. I giovani del Sole circondano i
suoi desideri, come una setta di eunuchi custodi dell’arte dell’amore maschile.
Insoddisfatta, APhàsia impugnava quasi con
ostinazione il delicato specchio d’argento
e lo scrigno d’alabastro avvolto di velluto a celare le boccette: olii,
essenze, tinture e profumi.
La ricerca dell’eterna giovinezza
tenuta in una mano sola.
Scalza come suo solito, si alzò,
facendo scivolare i veli candidi sul tappeto. Impettita, ostentava la propria
nudità al centro del cerchio delle donne ancora insonnolite, mentre i fuochi
dell’alba incendiavano l’orlo del promontorio per scacciare dalla valle gli
ultimi refoli di gelo notturno.
Le curve sinuose, il bianco candore
della pelle ancora liscia, il volto già idilliaco incorniciato in una cascata
di capelli d’oro profusa a mezza schiena. Marmorea figura, perfetta in
proporzioni.
Gli occhi chiarissimi che ancora e
per sempre cantano una maledizione nel deserto bilanciavano labbra rosse come
braci.
Paura e desiderio suscitati da questa
vestale dell’amore completo risvegliavano in fretta i sensi dei guardiani
ansiosi mentre le compagne stropicciavano le membra intiepidite.
Come se fosse sola, APhàsia scrutava
nello specchio in cerca di un difetto qualsiasi: un livido, una ruga. Nulla.
Ma allora, perché? Senza trovare risposta,
pianse. Le lacrime fulgide come diamanti rigavano il viso deluso. Cadde in ginocchio, mentre lo specchio,
scivolato via dalle dita affusolate, nonostante tutto non si ruppe. Le braccia
conserte, piangeva.
Una mano calda le asciugò il viso. Onuni, la
nuova. Appena arrivata e ancora adolescente. Abbronzata di bellezza selvaggia
la avvolse in un abbraccio sincero, la pelle tiepida al tocco.
Quegli occhi così verdi lessero i
suoi pensieri, mentre i capelli corvini si intrecciavano con i suoi.
Si accarezzarono. APhàsia premette le
dita sui piccoli seni acerbi dell’amica; i capezzoli ritti le pungevano i palmi.
Mise una mano tra le gambe snelle e sorrise.
“Amiamoci”, sussurrarono complici.
Il circolo di donne giaceva ora ipnotizzato
intorno alle fanciulle avvinte, tremanti, meravigliate da estasi congiunte, i
corpi aulenti. Una per una si fecero coinvolgere.
Per prima Inda, un tempo bella seppur non
certo vecchia. Poi Iconia, prorompente come sempre; Isalti e Zusi, gemelle;
Bìul dell’elleboro, Kami l’orientale, la minuta Zabin, e Gadine, cieca. Rilèe,
la più matura tra loro. Sarina, sfregiata in viso, Miol la scontrosa, Ohmra crudele
a volte; e Sisti, sempre dolce, Alina e Iredi morbide e senza segni; Timea
glabra e tatuata, Zalti melanconica. Vinna fin troppo affettuosa e infine Lalla
parlatrice insidiosa. Sfuggenti come gatte, stanche come prigioniere. Amanti,
tutte. Phasila fece l’amore con tutte loro, generosa come infinito fu il suo
cuore in un turbine di baci dati in pegno, fatto a brani dai morsi di un calore
che non si ferma mai.
Ma da quel mattino soleggiato è
trascorso molto, molto tempo…”
Il neon si è
acceso all’improvviso mentre i passi risuonano nel corridoio; poi c’è il rumore
secco dello spioncino che scivola di lato e il rapido movimento del vassoio di
peltro che gratta sul pavimento. Il cibo sopra è ancora caldo, ma nella cella
fa sempre freddo.
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